Palermo

C’è qualcosa in Palermo che merita d’esser raccontato. Questa non è una guida di viaggio, ma il racconto di una città vista in 4 giorni, da occidente. Tutti i piatti segnalati sono tipici e vegetariani.

No, parlo proprio delle macerie.
E non parlo di Roma ma di Palermo.
Se nasci e cresci lì, sai cosa sono le macerie.
(G. Vasta, Absolutely Nothing)

A Palermo ci si arriva in autostrada, come in quasi tutte le città italiane, però lì all’arrivo non ci sono caselli, né uscite particolari, l’autostrada si accosta alla città e ne diventa tangenziale. Arrivando in macchina precipiti nel traffico cittadino in pochissimi minuti. Arrivarci d’estate, con il caldo, è il metodo più semplice per sentirti parte di un luogo nel quale le strade non sono solo vie di collegamento, ma qualcosa di più, anche se nelle prime ore ho fatto fatica a capire cosa.

Aggiro la zona ZTL cercando di arrivare in un B&B zona porto, scelto per caso pochi giorni prima di partire, senza troppa attenzione, badando solo fosse centrale, così da non dover prendere la macchina per spostarsi, e così è stato. Rimettendo i piedi sulla strada ho avuto di nuovo l’impressione che quell’asfalto rovinato fosse qualcosa di più, ma arrivare all’ora di pranzo, sotto il sole, ti spinge a infilarti nel primo panificio sulla strada per iniziare ad assaporare il luogo attraverso il suo cibo. Nei giorni passati in Sicilia prima di arrivare a Palermo non è stato difficile capire che il cibo è qualcosa di più importante delle religioni e dell’immigrazione. I migranti hanno imparato a cucinare panelle, a servirle per fare soldi con i turisti. E così ci serve una ragazza siciliana mentre in cucina ci sono due ragazzi, forse pakistani. Arriva il primo Pane e Panelle della nostra permanenza Palermitana.

Il pane con il sesamo è quello più simile alla Mafalda, le crocchette sono buone, anche se un po’ sfatte, la panella invece è croccante e buonissima. Ne abbiamo poi mangiati molti altri durante la permanenza a Palermo. È uno dei piatti tipici più conosciuti ed è diffusissimo, ovviamente è totalmente vegetariano. È un cibo di strada, e ancora una volta ritorno all’idea che qualcosa di particolare spinge verso il basso, sull’asfalto distrutto delle strade di Palermo.

E così inizia la nostra traversata, che può durare alcuni giorni ed essere raccontata come fosse un pomeriggio solo, oppure può durare un paio d’ore ed esser così ricca da necessitare giorni di racconto.

Arriviamo subito davanti ai teatri ai luoghi accerchiati dai turisti, ma non è di questo che riesco a parlare raccontando Palermo, perché forse quell’immagine di sé mi è sembrato che Palermo non la possegga, forse solo uno dei monumenti riesce a raccogliere quella sensazione, quello sguardo che si respira: La cattedrale di Palermo della Santa Vergine Maria Assunta.

Questa cattedrale, come già si evidenzia dagli archi e dalle decorazioni, non si può definire univocamente come un luogo di culto cristiano, inoltre è stata una moschea per un periodo di tempo che va circa dal 800 all’anno 1000 d.c.. Ovviamente questo non è il solo luogo che subisce questa influenza, ma in questo caso è il contesto a renderlo particolare. Sono ancora una volta le strade, arrivando dalla parte opposta rispetto a quella fotografata, che mostrano una  Palermo che si chiude in stradine piccole e arroccate intorno a palazzi distrutti, abbandonati, in parte crollati.

E così decido che per guardare Palermo bisogna abbassarsi al livello della strada, guardarla dal basso verso l’altro, perché si riesce ad avere una migliore visione del cielo che terso la sovrasta, ma anche perché si sente meglio l’odore della strada.

I palazzi sono sempre stati un concetto, più che un luogo, nella mia testa. C’è una messa in scena dell’idea di società, di politica, nella forma palazzo. Quando però i palazzi mettono in mostra il tempo trascorso possono diventare rovine, quindi raccogliere il passato e custodirlo; oppure possono essere macerie, quindi raccolgono il passato e lo dimenticano.

A Palermo succede qualcosa di diverso, perché le macerie custodiscono qualcosa della rovina. come ha raccontato Giorgio Vasta e come prima di lui ha scritto benissimo Marco Belpoliti ne L’età dell’estremismo. Il passaggio della storia è nella distruzione messa in scena. Quindi cosa guardare mentre si cammina per strada? Ovviamente non solo i monumenti presenti nella guida o sulle indicazioni. I palazzi crollati, così come le targhe arrugginite che ricordano qualcuno ucciso per mafia, mettono in scena l’anima di una città nella quale la storia intera dell’Italia ha avuto dirottamenti evidenti (l’omicidio di Falcone, come esempio su tutti, ma su questo tornerò dopo).

Palermo mostra le macerie dei propri palazzi come monumenti, sono quei luoghi che creano il contesto all’interno del quale tutto avviene, e le cose avvengono necessariamente in rapporto al contesto.

Per questo camminando nelle strade, e perdendosi, bisogna fermarsi a guardare lì dove apparentemente non c’è niente, perché è proprio in quegli spazi che sta maturando la storia della città.

I luoghi e le foto si abbassano di prospettiva e tutto inizia a sembrare al suo posto. Mi accorgo improvvisamente che la città è piena di bancarelle, bancarelle ovunque. Vendono di tutto, dalle cover per gli iPhone dei turisti alle selfie sticks ai cappelli di paglia, ai souvenirs. Ecco perché il luogo ideale nel quale proseguire il nostro giro per le strade di Palermo è la Vucciria.

Alla Vucciria i locali tipici pieni di turisti sono anche pieni di camerieri provenienti da ogni parte del mondo. Insieme a loro ci sono anche i palermitani, quasi tutti radical chic, mischiati a qualche punkabbestia rimasto fermo agli anni ‘80.

Il pesce è qualcosa che attraversa tutta la cucina italiana, io da vegetariano lo guardo interponendo una distanza che però non è culturale. La tradizione qui è servita a tavola, ma non è storicizzata, monumentalizzata: sembra ancora viva. E così forse i migranti stanno portando nuovi sapori e nuovi odori in questi piatti, così come hanno fatto gli arabi, faranno gli africani (con tutte le loro differenze interne), o gli asiatici.

Il risultato è il sistema migliore per arrivare a chiedersi cosa sia realmente una tradizione, cosa un piatto tradizionale? Quanto può avere origine nella tradizione italiana il cous cous alla trapanese? Quanto le arancine? Forse la tradizione non è qualcosa che lega, ma qualcosa che cambia, un punto di partenza necessario per avanzare, cambiare.
Ma noi non mangiamo pesce, né carne e alla vucciria gli odori si alternano tra la frittura di pesce e la Meusa (Milsa – e altre frattaglie – cotta nello strutto). E così ci incamminiamo verso l’Antica Focacceria San Francesco, luogo storico nel quale mangiare piatti tipici. Il ristorante occupa un’intera piazzetta, ci sono moltissimi turisti, ma la qualità del cibo che abbiamo mangiato era molto alta, sia per tradizionalità, sia per sapore. E inoltre offre la possibilità di assaggiare molti piatti tipici, tutti nello stesso luogo.

E così iniziamo con la focaccia schietta. È una specie di panino con la ricotta e il caciocavallo a scaglie, è all’origine di quello che poi sarebbe diventato il pane con la milza chiamato Focaccia maritata. Solo con questo antipasto e con il suo futuro si riesce a intuire la mescolanza di culture, da quella ebraica (pare che la milza si sia iniziata a vendere per strada perché i macelli influenzati dalla cultura kosher, non potevano ricevere denaro in cambio della macellazione e quindi gli organi di scarso valore venivano regalati ai macellai che per guadagnarci li rivendevano ai cristiani, tutto questo circa nel 1400) alla cultura cristiana e a quella araba data dai semi di sesamo. Ancora la tradizione torna sull’asfalto come mescolanza, come diversità e unione.

Il secondo piatto è culturalmente più rilevante, anche se in questa veste si porge molto radical chic. La caponata è stata, infatti, forse l’unico piatto che io abbia mangiato in ogni pasto, fondamentalmente perché nonostante sia un piatto tipico, ogni locale l’ha cucinata in maniera diversa. Anche in questo caso il sapore delle melanzane si mescola con la cipolla e il sugo, talvolta con il sedano, spesso con altre verdure come i peperoni. Come frequentemente accade, rifacendola altrove non avrebbe quello stesso sapore che ha mangiata nelle vie di Palermo.

Per questo credo che le macerie siano non solo un contesto, un contorno all’interno del quale muoversi, ma un fattore determinante anche dal punto di vista culturale. Uno dei quattro lati della piazza nella quale risiede la focacceria San Francesco, è un palazzo distrutto. Per coprire i buchi che dovevano essere finestre e i buchi che dovevano essere porte sono stati apposte delle finestre e delle porte stampate, rendendo così tutto una via di mezzo tra la finzione e la maceria, ciò che in un certo senso dovrebbe essere la rovina: un oggetto da custodire perché simbolico.

D’altra parte lì vicino, a pochi passi c’è la Vucciria, luogo che forse custodisce questo senso di tradizione, innovazione, distruzione e bellezza, meglio di qualsiasi altro posto a Palermo. Sotto l’insegna Maggiore convivono turisti, punkabbestia, ubriachi, radical chic e borghesi. La prospettiva si alza sembra che tutto torni ad esser paritario, le persone sono uguali, molti con le birre in mano, o con altri piatti di strada, per lo più pesce o carne. Pur essendo appena passati e avendone appena scritto, quella strada ritorna in un senso specifico che è il rapporto diretto tra chi vende e il turista. E così ci penso ancora, mentre mangio la caponata, mi accorgo che i monumenti non sono solo i teatri, i palazzi storici o i musei, ma le bancarelle. E se si riesce a creare un monumento con dei pentoloni, il fuoco e qualche scarto di macelleria, allora tutto cambia la prospettiva di quello che sto guardando. La focacceria è un luogo nel quale si consacra e si esporta qualcosa al di là del contenuto, ma propriamente nell’immagine, che è certamente anch’essa contenuto, ma è anche qualcosa in più. La scritta Vucciria di sera si illumina, ma (almeno nei giorni in cui l’ho vista io) non si illumina per intero, alcune lettere rimangono spente. Non credo sia una mancanza, ritorna il senso di brillante decadenza della rovina, lì dove invece sembra ci siano solo macerie. 

È scintillante ciò che è crollato, ciò che è stato distrutto. E questa stessa distruzione la ritrovo nei cartelli che commemorano i morti per mafia. Logori di ruggine, per Palermo ce ne sono diversi, anche sull’autostrada, a capaci, ci sono dei cartelli, arrugginiti, che ricordano quello che difficilmente si riesce a dimenticare. La ruggine, come le macerie, resta lì dove deve stare, perché il tempo consuma tutto, e l’attaccamento di questa città al tempo è qualcosa di particolare. Rispetto alla ricostruzione e alla riqualificazione urbana di molte città italiane, Palermo sembra attraversi il tempo differentemente. Sarebbe un peccato se togliessero quei cartelli arrugginiti, così come sarebbe un errore rimuovere i palazzi distrutti, le macerie. Forse si perderebbero le strade e gli odori di fritto che passano con il vento. Ma non è nel mantenere lo status quo che giace l’identità di questa città. La contraddizione si vede soprattutto in alcuni locali, nuovi, a ridosso del mare, nelle periferie più borghesi. Esiste una Palermo moderna, “europea”.

Intanto però seduto a tavola arriva un altro piatto tipico: la pasta alla norma. Non c’è molto da aggiungere alla popolarità di questo piatto. L’ho mangiato anche in un altro locale, che forse l’ha fatto anche più buono, si chiama Ferro di cavallo, è anche questo a pochi passi dalla Vucciria, in una stradina stretta e colorata dai fiori. I luoghi in cui mangiare sono adattati sui turisti, anche qui sembra che il pesce, come in tutta Palermo, sia un elemento portante della cultura. Ovviamente dalla scelta vegetariana non desisto per assaporare la tradizione, perché alla sofferenza sento di non dover aggiungere altra sofferenza, per quanto mi è concesso fare. Ma i turisti, noi compresi, sono costretti ad affrontare quegli odori, che porterò con me ancora per molto, e gli odori sono difficili da rappresentare.

Alcune sere dopo siamo andati sul mare, per mangiare in uno dei posti più nuovi, con uno spirito diverso, affianco a uno spazio attrezzato con campi da calcio e giostre per bambini, a meno di 20 passi dal mare, c’è il Nautoscopio, lì l’odore dei calamari fritti ritorna vicino all’odore del mare. Seduti sui cuscini abbiamo bevuto vino bianco e mangiato verdura fritta. Non c’è più niente di tradizionale, Palermo scompare e si vedono soltanto i monti che la circondano e di tanto in tanto una nave che salpa per Napoli o per l’Africa. Poi prima di andare via, mi accorgo che dietro di noi c’è una torretta di avvistamento, con feritoie, forse casematte o Bunker di avvistamento. Non ho informazioni su quella struttura, ma ad oggi è una delle macerie presenti e mai rimosse.

Tornando a casa costeggiamo il lungomare e nuovamente ci troviamo di fronte a uno strano monumento che ricorda tutti i morti per mafia, che ad un primo sguardo non sembra altro che un obelisco di ferro, poi ovviamente scopro la bellezza di quell’oggetto e mi accorgo che la sua forza è nella ruggine che crea. Realizzato da Mario Pecoraino in acciaio corten, un materiale che si ricopre di ossidi, arrugginisce, proprio come le targhe sulla strada all’altezza di capaci.


Prima di abbandonare Palermo andiamo per l’ultima volta alla pasticceria Costa, in una zona borghese e apparentemente benestante di Palermo. Ci fermiamo per mangiare cassata e cannolo. Non si può non parlare di questi dolci, della ricotta di pecora dal sapore denso e deciso, dello zucchero abbondantemente usato per realizzarli. Anche questo piccolo dolce, apparentemente semplicissimo, custodisce millenni di invasioni, culture, dominazioni, guerre e tradizioni perse per sempre. I canditi risalgono al periodo barocco, la sua invenzione al periodo arabo, la produzione di ricotta si perde in un indefinito passato. Usciamo e vicino alla macchina troviamo un ragazzo che ci chiede se possiamo dargli il grattino che non era ancora scaduto, quei pochi centesimi di tempo da riutilizzare altrove, per un altro veicolo, o forse da rivendere comunque a pochi centesimi di euro.

Mentre ci mettiamo in macchina per tornare verso casa lasciando definitivamente Palermo guardo un’ultima volta le strade, quelle su cui tutto è iniziato e mi accorgo che sono tante le cose delle quali non ho scritto (Ballarò e l’ortobotanico, ad esempio), mi accorgo, sento di non aver visto ancora tantissimo, forse cose fondamentali, cose che tutti consigliano e che a me nessuno ha detto. Sento di dover tornare, di dover completare questo viaggio in altri tempi, facendo depositare i miei ricordi come macerie, lasciarli scintillare sino a quando la luminosità non diventerà tale da attrarmi nuovamente.

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